“Stay Human”

Malaguti Selene    V liceo linguistico

 

Torino. 29 novembre 2016.

Il nostro pullman accosta in via Paolo Borsellino, nel fulcro della città, di fronte a un edificio monumentale che si erge in mattoni scuri a vista: si tratta dell’ex carcere ottocentesco di Torino, chiamato “Le Nuove”, dal 2003 sostituito dal neonato “Le Vallette”.

Da quella data il colosso che ci si impone davanti agli occhi è stato trasformato in un museo, visitabile così da poter essere vissuto nella sua piena essenza anche da coloro che non hanno mai avuto esperienze di reclusione.

Fa fresco. L’aria gelida del cortile esterno muove con vigore le bandiere che sporgono dal cornicione dell’immenso ingresso.

Ad accoglierci è un anziano signore, piccoletto, con un cappellino e una giacca pesante, felice…si chiama Felice. Solo in seguito lo scopriremo essere uno psichiatra carcerario, ma dal primo istante a colpirci è stato il suo atteggiamento confidenziale nei nostri confronti: guardandoci negli occhi, uno per uno, ci ha chiesto come ci chiamassimo e stringendoci la mano, con calore, ci ha dato il benvenuto nel suo mondo.

Divisi in due gruppi proseguiamo lungo il percorso del cortile esterno. Il freddo è intenso e la forte sensazione che genera riempie i nostri pensieri con insistenza, fino al momento in cui ci troviamo di fronte ad una schiera di fotografie appese al muro in mattoni che circonda l’edificio nella sua interezza. Camminando seguiamo con lo sguardo la linea di muro occupata dalle istantanee di quei volti giovani; più proseguiamo, più sembra allungarsi, non avere fine. 1943,1944,1945… sono le date delle loro morti: tutte avvenute per mano dei tedeschi… per un tedesco ucciso, dieci italiani. Singole persone trattate come elementi di una semplice ma agghiacciante equazione. Uomini morti per la loro Nazione, per la loro Identità.

Si apre una porta verso l’interno del carcere e se ne chiude una alle nostre spalle.

Al carcere funziona così.

Rimani braccato in una morsa stretta, claustrofobica: ti trovi per lunghi istanti in uno stretto corridoio e devi lasciarti alle spalle il passato, perdere man mano la tua identità e vivere nell’attesa di scoprire che cosa ti aspetterà oltre quel nuovo ostacolo ancora immobile e oscuro davanti a te.

Osserviamo la pianta del carcere nel suo aspetto tardo ottocentesco: un solo braccio è dedicato esclusivamente a donne e bambini, degli altri assegnati agli uomini uno era dei prigionieri tedeschi. L’esterno appare diverso da quello odierno: era progettato per assicurare il completo isolamento dei singoli carcerati.

Il primo braccio, quello femminile, presenta celle disposte su due piani, circondati da griglie grigie che offuscano la vista. Vi sono stanze che erano dedicate all’insegnamento delle tecniche basilari per cucire, lavorare la lana. Altre fungevano da infermeria, altre ancora da asilo: vi sono ancora esposti i giocattoli di quei bambini che avevano dovuto vivere i primi tra anni della loro vita all’interno di una realtà così limitata, claustrofobica, per poi essere successivamente catapultati in un mondo sconosciuto, che non gli apparteneva, con genitori che non erano i loro.

I bracci maschili hanno subito numerose modifiche nel corso della vita del carcere, presentando celle man mano più vivibili.

L’idea dell’isolamento era il fondamento del progetto iniziale del carcere in sé: le singole celle avevano dimensioni ridottissime, senza servizi igienici, senza alcun letto su cui dormire se non un asse di legno duro e tarlato. Le loro mura scrostate sembrano stringersi sempre di più, la loro implosione sembra essere impedito solo dall’aria densa, pesante e umida che si espande, fredda. Nella parte che era stata dedicata ai prigionieri tedeschi è esposta la divisa dei carcerati: sottile stoffa rovinata a righe. Quell’indumento non copriva, non scaldava, nascondeva: nascondeva l’identità dei singoli esseri umani che si trovavano stipati a decine in quegli ambienti che malapena erano vivibili da uno solo. Quella divisa li faceva apparire tutti parte di un insieme insignificante di esseri da eliminare; le righe della loro veste si fondevano le une con le altre e i loro corpi esili svanivano in un’opaca massa insignificante che necessitava acqua, cibo, calore, solitudine.

Ritorniamo sui nostri passi per raggiungere l’ultima parte ancora da noi inesplorata del carcere. Il nostro sguardo è catturato da un grande oggetto in legno, di scorcio sopra un tavolo: una bara. Sì, in carcere si muore: se non di vecchiaia, di stenti, di soccorsi non tempestivi oppure semplicemente perché si deve.

Abbiamo capito cosa ci aspetta.

Giungendo in un atrio ampio possiamo comprendere l’utilità del sistema utilizzato in gran parte del carcere: il “Panopticon”. Dall’alto dei balconcini che circondano in quota l’atrio circolare le guardie potevano osservare tutto ciò che accadeva sotto.

Fulcro di questo spazio è una scala a chiocciola. Snodo della stanza, sembra risucchiare tutto ciò che la circonda, come un turbine dalla magistrale potenza.

È la chiave dell’oblio.

Con angoscia scendiamo i numerosi scalini che vorticosamente si susseguono. Man mano che proseguiamo ci rendiamo conto che sorprendentemente percepiamo meno gli spilli del freddo nelle ossa.

Probabilmente è il calore del suolo, siamo sotto terra. Oppure semplicemente la liquida atmosfera muschiosa che ci circonda con quella quasi impercettibile ventata di odore di muffa sta diventando il centro dei nostri pensieri, scalciando via dalla nostra mente la sensazione predominante fino a quel momento.

Nella luce fioca giungiamo di fronte all’ingresso che sottostà alla scritta “Condannati a morte”. Quel buio corridoio tarlato da celle minuscole era stato destinato a custodire anche gli ultimi istanti di molti partigiani.

La nostra guida umilmente si fa da parte per poterci lasciare liberi di scegliere se vivere quell’esperienza. Calibrando il peso delle parole, che purtroppo nonostante il suo forzo ci piombano come un macigno addosso, ci spiega l’atteggiamento dei condannati quando si trovavano di fronte a quella porta e allungando lo sguardo non ne trovavano una ancora chiusa in fondo al corridoio, ma percepiscono solo oscurità. Quando i loro occhi si abituavano alla densità dell’aria nera davanti a loro, essi si rendevano conto che non ce n’era una. AL suo posto un freddo muro si stagliava in fronte al loro sguardo. La fine.

La guida ci aspetta fuori. Dobbiamo vivere l’esperienza di trovarci soli di fronte al nostro destino.

Le buie celle sono illuminate dalle ultime parole dei carcerati: sono piene di Amore. È sorprendente come un uomo che si trova immerso nell’ultima fragile porzione della sua vita riesca solo a pensare a coloro che ama, a gridare loro quanto siano importanti, così come sono stati gli ideali per cui ha combattuto per tutta la sua esistenza, fino a che non gli è stata strappata via. Non c’è odio nelle loro parole, non c’è rancore, solo la convinzione di aver fatto qualcosa di buono, per cui vale la pena morire.

La portata delle parole dei condannati ha sicuramente avuto un forte eco in ognuno di noi, tanto da farci riflettere su quanto diamo per scontato l’amore: abbiamo la convinzione che sia uno dei tratti salienti della nostra vita, eppure quando ci si presenta l’occasione di esternarlo non lo facciamo. Buttare fuori e amplificare quella piccola particella di odio che la nostra giovane età ci ha fatto maturare nell’animo appare semplice; molto più difficile ci risulta descrivere all’altro anche una minima parte di quel vento multiforme chiamato amore che abbiamo dentro. Ma secondo l’accogliente, solare ma allo stesso tempo riflessivo Juri, nostra nuova guida, dobbiamo sforzarci di dire cosa proviamo: rendere partecipe l’altro dei nostri pensieri, dirgli tutto quando ne abbiamo occasione, anche se sembra stupido o scontato.

Lo diamo per scontato, l’Amore.

Sminuendo così tanto questa forza non ci rendiamo conto di quanto valore possa avere per colui che si è disperso, come ad esempio un carcerato. Smarrito, solo in mezzo a tanti individui con cui non vuole condividere il suo spazio e il suo tempo, perché disprezza la compagnia e disprezza la sua situazione. Quest’aurea di negatività è come un tumore per un carcerato: una risposta epistolare che tarda ad arrivare o un gesto scortese sono visti dal carcerato come sotto la lente di un microscopio. Egli eleva all’ennesima potenza ogni esperienza e nessuno può biasimarlo. All’interno del carcere si crea una realtà-altra, dove sguardi e contatto fisico hanno maggior valenza: io ti vedo, io mi fido di te.

Il singolo non deve arrivare ad essere spersonalizzato. Il singolo deve poter essere delineato nei suoi tratti salienti, con la sua personalità, i suoi difetti, le sue debolezze, i suoi gusti, i suoi sentimenti. Egli deve avere la possibilità di uscire dal suo errore, non essere identificato con esso.

Lo sbaglio è dettato da cause. Ogni uomo ha diritto di sbagliare. Questo però non va inteso come un giustificare e rinnegare il passo falso. Questo significa dare un valore alla persona. Dargli la possibilità di rinascere dalle proprie rovine, di capire di aver sbagliato, così da costruirsi una vita più stabile al momento della scarcerazione. Le persone come Juri arrivano ad essere capaci di ricucire gli strappi di esistenze problematiche, di curare con tempo e pazienza gli squarci provocati dal dolore sia nel carcerato sia nel suo mondo fuori da quelle mura protettive.

I nostri carceri non devono più essere visti come luoghi di tortura. C’è necessità di un mutamento di mentalità: l’unica soluzione è rendersi conto che il carcere deve rieducare, formare, non punire soltanto. Citando Martin Luther King “L’odio non può eliminare l’odio. Solo l’amore può”.

Esemplari esistenze come quelle che abbiamo avuto l’opportunità di conoscere in questa giornata sono capaci di far comprendere che “Nessun uomo è un’isola”: nessuno può reputarsi forte abbastanza per uscire vittorioso dagli scontri tumultuosi e nessuno può sentirsi destinato a ritrovarsi da solo in balia delle onde.

La giornata ha trattato temi molto impegnativi, ma alla fine ci ha resi più consapevoli di principi di vita che possono essere applicati anche alla vita di tutti i giorni. Paradossalmente siamo giunti alla fine del percorso più sereni di quando lo abbiamo intrapreso. Abbiamo forte speranza che vi sia una svolta definitiva nella concezione di questi ambienti e se questo avverrà sarà principalmente merito di persone speciali che sono capaci, giorno dopo giorno, di creare calore umano anche “al fresco”.

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